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UNA STRAGE SENZA NUMERI

RECENSIONE DI MARIO BLASONI

Dal “Messaggero Veneto” di domenica 9 giugno 2002

Tra il settembre del 1943 e la primavera del 1945 più di cinquemila italiani furono sterminati nei territori della Venezia Giulia occupati dal movimento di liberazione del maresciallo Tito. Non fu solo un moto popolare di reazione a vent'anni di fascismo, un'esplosione spesso incontrollata di vendette per le misure repressive esercitate dal regime sulle minoranze slave. Fu soprattutto un preciso, preordinato progetto tendente all'eliminazione del potere italiano e alla sua sostituzione con il contropotere dei partigiani comunisti slavi. Un disegno politico di distruzione della classe dirigente italiana, vista come un ostacolo all'affermazione del nazionalismo sloveno e croato.
Lo sostiene – confortato da documenti di fonte jugoslava e inglese oltre che italiana, da testimonianze dirette di parenti e sopravvissuti, dal supporto della storiografia più autorevole di questi ultimi anni - lo studioso goriziano Guido Rumici, classe 1959, insegnante di economia aziendale e ricercatore di storia ed economia regionale, nel volume, edito da Mursia, “Infoibati (1943-1945) I nomi, i luoghi, i testimoni, i documenti”.
E dicendo infoibati si intendono non soltanto le centinaia e centinaia di italiani gettati nelle cavità carsiche, ma anche tutte le altre vittime del revanscismo nazionalista slavo: i deportati e scomparsi nel nulla, i morti di stenti in prigionia, nonché quelli finiti nelle fosse comuni o gettati in mare con una pietra al collo.
Una tragedia nazionale che per decenni è stata dimenticata e rimossa (per opportunismo politico, ma anche per ignoranza e per colpevole indifferenza) viene minuziosamente ricostruita da Rumici con un lavoro di ricerca senza precedenti. Già autore di “L'Istria cinquant'anni dopo il grande esodo” (Premio Carbonetti 1998), “La scuola italiana in Istria” (Premio Tanzella 2001) e “Fratelli d'Istria” (Mursia 2002), il giovane studioso goriziano ha ripercorso la storia, dall'unità d'Italia a oggi, dei difficili rapporti interetnici in questa terra di confine. Senza pregiudizi ideologici, basandosi sulle tesi di noti studiosi italiani (de Castro, Sema, Dassovich, Papo, Petacco, Salimbeni, Spazzali e altri ancora), nonché croati e sloveni, e sui ricordi - incancellabili e ancora dolorosi - dei sopravvissuti, Rumici ha ricostruito, quasi giorno per giorno e località per località, le due ondate di violenza cui i partigiani slavi si sono abbandonati verso i nostri connazionali: dopo l'8 settembre '43, quando l'esercito italiano si è dissolto lasciando loro mano libera, e nel maggio-giugno '45, dopo la resa dei tedeschi e la fine della guerra.
Una strage non quantificabile (le vittime complessive, secondo alcuni storici, sarebbero più di 10 mila, ma secondo dati più controllabili sono sicuramente tra le 4 e le 5 mila): i comunisti jugoslavi cercarono di nascondere ogni traccia degli eccidi, arrivando persino a distruggere gli archivi comunali delle cittadine e dei paesi dell'Istria. E questo nell'ovvio intento di cancellare i nomi italiani, spesso in netta maggioranza. Quanto all'eliminazione fisica dei nostri connazionali, "la tipologia delle persone prese di mira - scrive Rumici - fu molto ampia e riguardò non solo i possidenti terrieri e i dirigenti e iscritti del partito fascista, ma anche i carabinieri, finanzieri, guardie forestali e campestri, questurini, militari del regio esercito, anziani irredentisti ed ex legionari fiumani, podestà, segretari e messi comunali, sindacalisti, sorveglianti delle miniere e capicantieri delle cave, insegnanti, bidelli, avvocati, farmacisti, commercianti, artigiani, operai specializzati e postini, in pratica i personaggi più in vista della collettività italiana".
Uccisero anche gli antifascisti e gli stessi comunisti italiani che non condividevano le loro mire nazionaliste. A Trieste eliminarono il C.L.N. (dal quale era uscito il P.C.I.) e a Fiume prima che gli ex fascisti, ormai sconfitti e impotenti, fecero sparire i capi degli autonomisti, piuttosto numerosi e battaglieri, che puntavano a un territorio libero che non fosse né Italia né Jugoslavia. La "purga ideologica e politica" nel 1945 si abbatté anche sugli slavi non comunisti: domobrani croati e sloveni, ustascia croati, cetnici serbi e montenegrini. Ne vennero infoibati dai 20 mila a 40 mila, secondo le varie fonti.
E dopo gli eccidi, prima ancora che - col trattato di pace del 1947 – gran parte della Venezia Giulia fosse assegnata alla Jugoslavia, cominciò l'esodo degli italiani. Ma il dramma delle foibe - afferma lo studioso goriziano - non fu la sola causa della fuga di 300-350 mila dei 500 mila abitanti dei territori occupati dall'esercito di Tito. Tutti coloro che si ritenevano estranei a ogni responsabilità politica e non volevano lasciare le terre giuliane, l'Istria e Fiume, si trovarono di fronte alle minacce e alle persecuzioni d'uno stato poliziesco. Quando i profughi arrivarono a migliaia in Italia furono spesso accolti - soprattutto dai partiti e dall'entourage della sinistra - con fastidio se non con ostilità. Ci si meravigliava che così tante famiglie lasciassero le case, le proprietà, i parenti, per affrontare un futuro incerto in una Italia che aveva già un sacco di problemi. Ma il loro non era vittimismo. Le conferme dell'esistenza di un piano teso all'allontanamento con ogni mezzo della popolazione italiana della Venezia Giulia, vennero dopo. Inconfutabile quella di Milovan Gilas, l'ex braccio destro di Tito che nel 1991 dichiarò: "Nel 1946 io e Kardelj (l'altro leader del comunismo jugoslavo, ndr) andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana. Si trattava di dimostrare alla Commissione alleata che quelle terre erano jugoslave (...) Bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto".
E oggi? Nel capitolo La memoria, Rumici ricorda che le foibe di Basovizza e Monrupino, rimaste in territorio italiano, nel 1980 sono state dichiarate monumento nazionale (alla prima hanno reso omaggio anche i presidenti della Repubblica, da Cossiga in poi). E a Gorizia un Lapidario con 665 nomi è dedicato alle persone scomparse durante l'occupazione slava del maggio 1945.
Qualcosa si muove anche oltre confine, ma con molta fatica. Ci sono state ammissioni da parte degli attuali governanti, sia di Slovenia che di Croazia, sui "crimini ingiustificati" e le "numerose vittime innocenti" del '43-45, ma per quanto riguarda il ricordo di questi poveri morti ci sono ancora resistenze. Il sindaco di Parenzo ha autorizzato una lapide in cimitero, ma poi ha fatto scalpellare la scritta "Ai martiri delle foibe". E davanti alla tristemente nota voragine di Vines doveva essere collocata una croce, ma l'Associazione combattenti antifascisti dell'Istria ha mandato a monte l'iniziativa.

Mario Blasoni

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